Tomas Milian: “Alla ricerca dei miei passi perduti”
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Il docufilm “The Cuban Hamlet”. Recensione e intervista a Giuseppe Sansonna.
In un’intervista, presente su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=w5WlCyzveb8 ), del 1984, andata in onda nella trasmissione televisiva “Domenica in” condotta da Pippo Baudo, Tomas Milian dichiara: « Sono timido (…) faccio l’attore per essere qualcuno che non sono io, che vorrei essere io». Oggi ritroviamo Tomas Milian, Uomo e Artista nel filmato “The Cuban Hamlet” del regista Giuseppe Sansonna, prodotto da Giuseppe Sansonna e da IXCO ong, con il contributo di Blue Panorama Airlines, con il sostegno di Minimum Fax Media, Quoiat Films ed il Circolo del Cinema “Dino Risi”, 2015. A distanza di trentun’anni ci troviamo davanti allo stesso uomo, ma imbiancato dal tempo che ne ha maturato la saggezza vincendo ogni timidezza. Un uomo in un’età in cui il ricordo diviene la propria vita, l’essenza dell’essere, in cui il “da dove vengo?” trova la sua risposta. Nel docufilm l’incipit propone la parola “ritorno” ed è un ritorno alle origini, alla propria identità. Un “ritorno” in connubio con il “ricordo”. Dice Tomas: « Per te. Sono venuto alla ricerca dei miei passi perduti». Una “per te” in cui si cela un capovolgimento, perché il suo interlocutore diviene specchio di Tomas stesso, che affronta un viaggio su invito di un altro e scopre di essere andato incontro a se stesso. Una frase in cui si rivela un passato, che per anni è stato chiuso in una soffitta dell’anima e viene riscoperto attraverso il ritorno nel luogo natio. Havana, la terra madre tanto cara a tanti poeti, da cui non si può staccare il cordone ombelicale, ma che rimarrà sempre il luogo delle proprie affettività, in cui rivedere, ritrovare e riscoprire se stessi. Con tenerezza Tomas riflette dicendo che noi siamo abituati ad invecchiare guardandoci allo specchio, ogni giorno, e il cambiamento, così appare naturale e spontaneo. Diversamente dal ritornare nella propria terra dopo tanti anni, dal 1956, in un luogo che si era perso di vista e in cui si sente la vecchiaia riflessa nelle case vecchie, nell’architettura che muta e mostra le sue rughe. Una rivelazione che fa male, perché mette davanti al vero specchio della vita e mostra ciò che siamo realmente, quindi un male che si rivela bene, perché mostra “l’invisibile agli occhi che non si vede bene che con il cuore” (A. de Saint-Exupéry). Un concetto, spiegato da Milian attraverso una metafora: «C’è una macchina da presa che mi forza a raccontare la mia vita». Ed ecco, che la timidezza lascia il posto alle parole e inizia un racconto che trasporta nel passato, come se fosse ritornato presente, visto con gli stessi occhi del bambino e del ragazzo che Tomas è stato: «La vita che mi porto dentro nasce qui, con lo sparo di mio padre, uno sparo che può essere l’inizio di una corsa (…) quello sparo mi ha fatto sentire il protagonista di un film». Ed è così, che il racconto dietro la telecamera svela, come in quanto viene comunemente inteso “male” vi sia la radice del bene. Attraverso un viaggio nella sua terra affronta un viaggio nella sua identità, con una visione da Edipo anziano e non vedente, non vedente perché non guarda più l’oggi, ma vede la propria vita a 360°: come se un velo avesse coperto l’oggi per proiettare tutta l’essenza di una vita. Una prospettiva che lo intenerisce e gli dona la giusta misericordia per guardare il padre e se stesso. Dice “Avrei voluto fare il rivoluzionario, ma sono stato più furbo, perché ho fatto il rivoluzionario nel cinema e non ho rischiato (…) sono un uomo ambiguo e sensuale (…) dentro di me c’è tutto, c’è un ladro, un bandito, uno che ama, uno che odia (…) è come se ci fosse un archivio dentro di me, devo aprire lo scaffale di un sentimento e mi concentro e divento quello”. Così, parla di come il mondo dello spettacolo e in particolare il personaggio “Monnezza” sia stato il suo maestro di vita. Rivede i suoi anni giovanili vissuti con spirito da bohéme e si definisce addirittura “una puttana”, perché per vivere ha accettato di fare tutto. Ancora, ringrazia Stanislaskij, per avergli insegnato attraverso il suo metodo che una parte va vissuta e non recitata: l’attore “diventa il personaggio” un personaggio che insegna a vivere. Ricorda tutto! Proprio come una cinepresa ripercorre le strade della propria anima. Ricorda la danza, di quanto gli sia sempre piaciuto ballare, perché dentro di se sente il ritmo e lo segue senza guardarsi intorno, senza guardare la gente, solo seguendo la musica che ingloba nel suo ritmo gli individui rendendoli partecipi di una comunicazione superiore. E tra i ricordi non manca la tenerezza dell’ amore per una ragazza di colore, allora contrastato. Rivive nel ricordo la sua ingenuità di uomo innamorato espressa in un’immagine di una lacrima che quella donna aveva versato sul suo petto rievocando i versi di una canzone, “Lágrimas Negras”, perché ingenuamente si era chiesto se la lacrima di una donna di colore fosse nera o bianca. Un docufilm che si rivela uno scrigno aperto dentro cui Cuba è vita, danza, amore, emozione, sentimenti e soprattutto è “uno sparo” capace di fare sentire un uomo il protagonista di quel film che è la propria vita.
« Ai ai ai che dolor
Che dolor
Che pena
Sono nato da un grido di dolore senza amore
Tra lenzuola di seta bagnate di sudore amaro
Ai ai ai
Mi diedero pelle perché fossi ferito dal vento
Ai ai ai
Aiutami Padre
Per poter strisciare via nell’armonia nella luce
E così non sentire più dolore,
ma gioia!»
(Tomas Milian)
Intervista al regista Giuseppe Sansonna:
Gent. Giuseppe Sansonna, La ringrazio per aver accettato la mia intervista. Le porgo i complimenti per il filmato commovente ed emozionante, come uno “sparo”.
Quali sono state le motivazioni che hanno generato questo filmato?
«Il film nasce da un mio progetto di libro dedicato a Tomas Milian. Sono andato a trovarlo nella sua Miami, a gennaio del 2013, per fargli una lunga intervista. Ero affascinato dalla sua vita rapsodica, oscillante spesso tra il grottesco e il sublime, e dalla sua brutale sincerità. Gli ho mostrato un mio documentario, dedicato al culto di Rodolfo Valentino nella sua Castellaneta, paesino pugliese che gli diede i natali, ala fine dell’800. Tomas è rimasto affascinato: lo interessava il mio discorso sulle varie ambivalenze del mito, sul concetto di maschera sul rapporto di culto che un attore amato instaura col pubblico. Da lì abbiamo deciso di lavorare insieme. Ho pensato che, per fare un ritratto inedito, non si potesse che tornare nella sua Cuba, nel luogo originario. Mi ero reso conto che la parola di Tomas, il suo logos, ruota esclusivamente intorno alla tessitura orale del racconto di se, cesellata nei decenni. Il mondo è puro fondale, per lui. I suoi mirabolanti racconti orali partono sempre dall’infanzia negata degli anni cubani. Ero curioso di assistere al cortocircuito che poteva creare in lui essere filmato (l’unico modo di vivere, secondo a sua particolare percezione dell’esistenza) in quella Havana lasciata sessant’anni prima».
Si tratta di un progetto ben curato in tutti i particolari o ci sono stati “momenti” che si sono creati da soli, da coincidenze, casualità, imprevisti?
«Molte scelte sono state effettuate in loco. Me le ha dettate il caso, le intuizioni del momento. Alcune mi sembrano molto riuscite, come l’ingresso in un rito di Santeria e il passaggio per il cimitero».
Ci sono stati momenti in cui la ripresa stessa nel male ha visto il bene?
«Il male e il bene, se si è sinceri, coesistono sempre nella vita e nell’inquadratura. L’ipocrisia, quella davvero maligna, è il non mostrarli. La brutale sincerità di Tomas, la sintonia che si è creata tra di noi, ci ha messi al riparo da questo rischio. Almeno credo».
Per approfondimenti si consiglia il seguente filmato:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-60a1254a-ac31-4329-85fd-33ecaad5da29.html
Ringraziamenti: