23 Maggio 1992: ricordare le vittime della mafia
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Parole significative del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla cerimonia di commemorazione e un articolo de «Il Giorno» del 1992.
Ieri, durante la commemorazione del 23 maggio 1992, giornata di lutto per le vittime della mafia, il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha pronunciato parole di speranza: “lo Stato eliminerà la mafia”. Una promessa e un impegno che richiede solidarietà e caparbietà nel proseguimento di una retta vita decisiva per tutta l’Italia.
Propongo qui un articolo comparso su «Il Giorno» il 22 ottobre del 1992:
Ecco i rapporti tra mafia e politica
PALERMO- Il velo si squarcia e dagli angoli oscuri del delitto Lima esce la prima, grande storia degli intrecci fra mafia e politica. Lo scenario dei delitti eccellenti del 1992 si illumina come un palcoscenico. È un’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal giudice per le indagini preliminari. Agostino Gristina, che genera il terremoto. Un’ordinanza che scotta, brucia come fiamma ossidrica. Il muro che comincia a fondersi è quello che per trent’anni ha nascosto e protetto i rapporti tra Cosa Nostra e il mondo politico romano. Sono le rivelazioni di pentiti vecchi e nuovi le leve sulle quali la giustizia palermitana, orfana di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tenta di muovere un ambizioso attacco al potere mafioso. Parlano i nuovi collaboratori della giustizia, come Gaspare Mutolo, Giuseppe marchese, Rosario Spatola e Leonardo Messina. Ma da poco più di un mese è tornato a parlare anche uno dei pentiti «storici» di Cosa Nostra: Tommaso Buscetta. Dalle 139 pagine del documento emerge immediatamente la spiegazione più probabile dell’omicidio di Salvo Lima, che va inquadrato, secondo i pentiti, come la vendetta di Cosa Nostra contro la sentenza della Cassazione che ha confermato ergastoli e tesi del maxi-processo. Ma dalle rivelazioni scaturisce anche una geografia del potere politico-mafioso, che coinvolge, con Lima, uomini della corrente andreottina della Dc, arrivando, nelle dichiarazioni di un pentito, fino al nome dello stesso ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Sono soprattutto le rivelazioni di Giuseppe Marchese, fino allo scorso agosto vicinissimo a Totò Riina, e Gaspare Mutolo, profondo conoscitore dei trafficanti di droga siciliani, che danno la possibilità di tracciare la nuova mappa dei boss e la geografia dei rapporti fra mafia e politica. È Marchese, uomo d’onore dall’età di 17 anni, che spiega il delitto Lima. Il luogotenente di Andreotti fu ucciso perché non era riuscito ad evitare la conferma in Cassazione della prima sentenza del maxiprocesso. Aveva promesso, l’europarlamentare dc, aveva giurato che il colossale lavoro di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri del «pool» antimafia sarebbe rimasto incagliato nelle maglie della Cassazione. Gli accordi erano chiari: il «teorema Buscetta» doveva uscire ridicolizzato e, con esso, tutto il lavoro del pool antimafia di Palermo nella sua persona più capace e carismatica: Giovanni Falcone. Lima era certo che Corrado Carnevale, «l’ammazza-sentenze», avrebbe trovato il cavillo già nella sentenza ordinanza di rinvio a giudizio firmata da Antonio Caponnetto, ma redatta di fatto da falcone e Borsellino. Le indagini sarebbero state azzerate: l’intero lavoro del «pool» sarebbe finito al macero. La stessa esistenza di Cosa Nostra doveva essere smentita dalla Suprema Corte. Ai giudici antimafia, in pratica bisogna tagliare le mani. Anche Buscetta indica in Salvo Lima il politico di riferimento di Cosa Nostra a Palermo. Il famoso pentito ne parla per la prima volta l’11 settembre scorso, in una segretissima deposizione, a New York, superando quel confine che si era sempre imposto di non oltrepassare. Lo fa ora, spiega, «perché ciò sarebbe stato considerato giusto da Giovanni Falcone». Buscetta rivela che già dagli anni Sessanta Lima era un punto di riferimento della mafia e che lo stesso politico democristiano, che non era stato fatto uomo d’onore, era figlio di un uomo d’onore della famiglia di Palermo Centro. Racconta episodi finora inediti, Buscetta, svela particolari importanti. Narra di un episodio significativo: nel 1980, mentre era latitante, si incontrò a Roma con Lima, davanti a Nino Salvo, uomo d’onore di Salemi. Era stato Lima a chiedere l’appuntamento: voleva scusarsi con Buscetta per non aver tentato di farlo uscire dal carcere. Il momento, spiegò, era tale (Lima era inquisito dalla Commissione antimafia) che un suo eventuale interessamento «avrebbe creato problemi» a Buscetta e allo stesso Lima. Questo, dicono i pentiti, era Salvo Lima, l’uomo che doveva salutare Cosa Nostra dalle inchieste dei giudici parlamentari. Ma il maxiprocesso non finì a Carnevale. Dalla sua scrivania del ministero di Grazia e Giustizia, Giovanni Falcone non mollò per un attimo quella pratica. Il collegio che se ne occupò fu durissimo: riconobbe la genuinità delle affermazioni di Buscetta, Calderone, Contorno e Mannoia. E confermò gli ergastoli per la Cupola. Una sconfitta bruciante, umiliante, per Cosa Nostra e per il suo capo, Totò Riina. «La belva», questo è il suo soprannome, aveva assunto su di sé tutto il peso del processo. E ora si era esposto al ridicolo e all’ira degli uomini d’onore detenuti. Non aveva scelta: doveva dimostrare che un torto del genere non l’avrebbe subito senza reagire. Qualcuno doveva pagare. Il proiettile di Cosa Nostra colpì la testa di un Salvo Lima in fuga. Erano le nove di mattina del 12 marzo scorso, la pallottola gli portò via mezza faccia. La sentenza della Cassazione porta la data del 30 gennaio. Il tempo di individuare la vittima e scegliere il momento buono per andare a colpo sicuro. Con quel proiettile, veniva messa la parola «fine» su trent’anni di rapporti fra mafiosi e politici. Su quella fine, i giudici di Palermo stanno per costruire il processo forse più delicato dell’epoca del «maxi». L’ordinanza di custodia cautelare concessa dal gip ha fatto scattare un blitz di polizia, eseguito dalla Direzione investigativa antimafia, che ha portato all’arresto di cinque persone: Vito Palazzo, 75 anni, Francesco Intile, 66 anni, Giovanni Cusimano, 43 anni, Antonio Geraci, 75 anni e Giuseppe Bono. Altri dieci, tra i quali Pippo Calò e Francesco Madonia, sono stati raggiunti in carcere dal mandato di cattura, mentre nove, fra i quali totò Riina, sono riusciti a evitare l’arresto.