Cosa significa insegnare: la storia della prof.ssa Carratù
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
La professoressa Donatella Carratù ha raccontato la sua storia a «Lecanoedelweb». Un’importante testimonianza per capire chi sono i “precari”.
«Sono Donatella Carratù, una docente precaria della provincia di Avellino, ho 30 anni ed insegno da 7 anni Italiano e Storia, in giro per l’Italia. Dopo la laurea, nel 2008, non mi è stata data la possibilità di conseguire un’abilitazione all’insegnamento, sebbene il mio corso di laurea, intrapreso presso l’Università di Napoli “Federico II” nel 2003, prevedesse, come principale sbocco lavorativo, l’insegnamento.
Ho cominciato ad insegnare in terra ligure, dove da giovane meridionale ho dovuto tener testa ad un dirigente scolastico, che entrava spesso in aula a controllare che fossi all’altezza del suo liceo. Ho accettato di lavorare in una scuola paritaria, pur provenendo da una famiglia che mi ha insegnato a rispettare e a servire con devozione la cosa pubblica. I miei orari, in quegli anni, erano disumani, specie se comparati ai miei salari. Il carico di complessità degli alunni, di difficoltà e degrado sociale mi hanno però dato la forza di mettermi in gioco, costantemente, anno dopo anno.
Quando nel Luglio 2012 ho superato le prove preselettive per il corso di abilitazione TFA presso l’Università di Chieti, ho pensato che avrei finalmente insegnato con dignità, senza dover subordinare le mie scelte didattiche al dirigente di turno, che avrei potuto mostrare di essere meritevole di prendere la responsabilità di coltivare emozioni, generare idee, domande, produrre verità. Con questo spirito, ho studiato per sostenere le altre due prove. Ho studiato tutta l’estate e l’autunno successivo, fino a Dicembre, quando l’ennesima prova superata mi ha permesso di essere ammessa al corso. (Avrei potuto partecipare al concorso, visto tanto studio, se solo il bando non avesse tagliato fuori i laureati privi di abilitazione. Quanti hanno ricorso contro quel bando, oggi sono tra i vincitori o tra gli idonei per i quali è previsto il piano di assunzioni, ma questa è un’altra triste storia italiana…) I posti riservati al TFA per la classe di concorso A052 (Latino-Greco-Italiano-Storia) erano 25: a superare le 3 prove eravamo stati in 15 o 16, non ricordo bene. Quell’anno, da Settembre lavoravo a Rieti, per una supplenza che sarebbe finita solo a Giugno. Non ho usufruito di permessi studio, ma avevo ottenuto dalla Dirigente dell’Istituto in cui insegnavo per il secondo anno di seguito di uscire ogni giorno alle 13. I corsi iniziavano alle 15. Dopo due mancati incidenti d’auto lungo il tragitto, cominciai a capire che il mio desiderio di insegnare non obbediva nemmeno alla mia dispotica razionalità. D’altra parte, seppure avessi chiesto le dimissioni dalla scuola, che ne sarebbe stato di me l’anno successivo? E come avrei sopravvissuto senza un minimo di stipendio? Gli stipendi, quell’anno, mi sono bastati a stento per coprire le spese dell’affitto, dei viaggi Rieti-Chieti, del corso (2700 Euro). Il paradosso? Pur insegnando, nelle mie ore “buco” dovevo recarmi al Liceo Classico per fare delle ore di tirocinio, per apprendere come si sta in aula dall’osservazione. Dopo circa una ventina di esami e dopo aver superato le prove di tirocinio, il 16 Luglio ho conseguito l’abilitazione, col massimo dei voti, con una lezione su un argomento scelto poche ore prima dalla commissione esaminatrice. “L’esame – ci dissero – deve essere proprio come quello del concorso, perché ha lo stesso valore”. Ottenuta l’abilitazione, il Settembre di quell’anno non sono state riaggiornate le graduatorie e quindi ho lavorato dalla terza fascia, su posto vacante, fino al 30 giugno. Ho lavorato nella stessa scuola in cui lavoro quest’anno, dalla seconda fascia, su posto vacante, fino al 30 giugno. Ho lavorato con la stessa dedizione ed entusiasmo con cui lavoro da 7 anni, ormai.
Qualche giorno fa, però, entrando in una classe, un’alunna ha osservato: “Prof. oggi è troppo spenta. Che abbiamo fatto?”. “Niente”, ho detto io, cercando di velare l’angoscia generata dentro di me da questa situazione di disordine generale. Se ho rinunciato a lavorare all’Università, se ho conseguito master, se ho approfondito lo studio dell’Inglese, l’ho fatto solo perché un giorno, nei banchi del liceo, decisi di insegnare, perché mi piaceva poter condividere con tutti una parte del mio sapere, perché mi piaceva che l’insegnamento fosse uno scambio costante di ricchezze.
Oggi vedo gli occhi dei miei alunni, di un Istituto tecnico sabino, scruto i loro pensieri e penso quanto male farebbe loro questo DDL, e non perché io sarei tagliata fuori, ma perché hanno bisogno di punti di riferimento, di certezze cui appigliarsi, di attenzioni e di input che non si esauriscano in un paio di belle lezioni dal titolo “La Buona Scuola”».