Il suono del silenzio
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Il silenzio ha un suo suono? ci comunica qualcosa?
Che cos’è il silenzio se non assenza di rumore? Non può esserci silenzio se vi è parola e di conseguenza neanche parola se vi è silenzio. Eppure, anche lui ha un suo suono e ci parla, trasmette emozioni e messaggi. Ci aiuta a scandire la nostra vita, così come negli spartiti la melodia è scandita da attimi di suoni, chiamati note e da silenzi, chiamati pause. Queste pause rendono la nostra vita melodiosa, ci permettono di riflettere, di fermarci ad ascoltare quanto ci circonda e quando conserviamo nel nostro animo. Può essere inteso come carenza, assenza, inquietudine, sospensione, attesa o ancora dolore, astensione di parole e di rumore, un tacere di quanto ci circonda esteriormente, ma non interiormente. Questo termine richiama una condizione in cui tutto tace, per lasciare spazio all’eco del nostro animo, una condizione in cui ci poniamo in ascolto del nostro essere, che spesso può evocare una sorta ragionamenti inquietanti. Così, come la solitudine può essere cercata, può essere anche sfuggita. L’aspetto positivo è inteso solo a pochi animi sensibili. Nella religione Cristiana si parla di silenzio quando si descrive Maria: “custodiva suo figlio nel silenzio”. Si è soliti definirla come la donna del silenzio e dell’attesa, un silenzio fruttuoso e denso di mistero. La parola ebraica vrx (charàsh) viene tradotta letteralmente “essere sordo o muto” e ricorre nella Bibbia ben centocinquanta volte, inteso come astensione dal parlare, da parte di chi potrebbe farlo, ma si astiene, quindi un silenzio attivo e intenzionale. Nella lingua ebraica vi è però un altro termine, hrx (chashàh) meno ricorrente nell’antica scrittura e tradotto in senso passivo e imposto, spesso legato a situazioni spiacevoli. Ancora, vi sono altri termini, sigào che indica assenza di rumore, hesuchàzo, tradotto come disposizione d’animo quiete. Nelle antiche scritture si parla anche del silenzio di Dio, cioè il Suo canale adoperato per trasmettere messaggi all’uomo. Spesso Dio non risponde alle nostre preghiere ma ci lascia nel silenzio, per mettere alla prova la nostra fede. Molte pratiche religiose richiedono tempi lunghi di silenzi, si pensi alla meditazione cristiana davanti all’Eucarestia. I religiosi ricorrono spesso a pratiche del silenzio, per meditare e per entrare in rapporto con Dio. Nei conventi e nei monasteri il silenzio è imposto in quanto regola della vita comunitaria, scandito da luoghi circoscritti e da orari. Anche in altre religioni vi sono pratiche del silenzio, ovvero forma di meditazione e di preghiera. Tra le virtù dell’Islam vi è anche il silenzio, perché il parlare troppo è un rischio che può condurre al male. Il musulmano modera la sua lingua, per evitare di dire qualcosa di malvagio. Anche nella cultura cristiana la parola è intesa tagliente più di una spada e si consiglia di moderarne l’ uso o addirittura di astenersi dal parlare invano. Molte volte, per esprimere un nostro coinvolgimento emotivo nei confronti di un evento, si dedicano alcuni minuti di silenzio, in atto di rispetto, per comunicare compassione. In alcuni luoghi pubblici vi sono obblighi di mantenere il silenzio, come Ospedali, Biblioteche, Musei, in quando non reca disturbo e crea ordine. In filosofia, il grande maestro Pietro Abelardo, uomo di cultura, non solo filosofo, ma anche teologo, cui sicuramente non mancava la buona dialettica, nel momento più importante della sua vita, accusato e perseguitato, tace. Sceglie il silenzio, come forma espressiva, per comunicare il suo stato d’animo, profondamente turbato e ferito, non aggiunge parole alle troppe ricevute. Per anni gli studiosi e i critici si sono interrogati sul significato di questo silenzio di Abelardo, cercando di interpretarlo nel modo più consono. Se citiamo altri personaggi noti, più vicini ai nostri tempi non possiamo non citare Peter Brook regista teatrale, nato nel 1925. Lui ha saputo cogliere il vero senso del silenzio e il suo suono, infatti spesso ha chiesto ai sui spettatori di rispondere allo spettacolo con un silenzio al posto di un applauso, in quanto mostra un gradimento e un coinvolgimento emotivo, quasi sacro. Secondo Brook vi sono due tipi di silenzio, quello di piombo, ritenuto infruttuoso e l’altro, il vero silenzio, quello che unisce rievoca stati d’animo e risveglia la sfera affettiva misteriosamente. Sempre rimanendo nel campo dello spettacolo, vanno citati i lunghi silenzi di Eleonora Duse, che resa afona dalla tisi, non si è mai arresa alla sua professione e ha sfogato tutta la sua comunicazione nella gestualità e nella mimica. Se volgiamo lo sguardo anche al cinema degli anni venti, non si possono non citare i silenzi del cinema muto. Una dimensione in cui le parole sono state sostituite da sguardi, da gestualità e mimica: «Gesti silenziosi come titolo per il lavoro dedicato alle presenze femminili nel cinema muto italiano. Le parole si offrono spesso come sponde, aprono passaggi, illuminano varchi e creano ponti sottili, ma saldi, capaci di condurci da un tempo a un altro, unendo in un tratto preciso di pensiero epoche e contesti diversissimi, apparentemente incongrui, ma che pure svelano, se attraversati da un certo sguardo, rime nascoste, assonanze sorde e persistenti»[1]. Se pensiamo all’arte, nel suo silenzio statico ci parla continuamente, rievoca il tempo in cui è sorta, il tempo a cui è stata dedicata, trasmette il suo messaggio che secondo la diversa sensibilità dello spettatore può variare. Come, ad esempio, il messaggio di bellezza che trasmette può essere diverso nei vari periodi storici. La figura della donna mediterranea riprodotta dagli antichi greci era già molto diversa tra Atene e Sparta, dove la donna era nella prima città madre e casalinga, riprodotta con curve tondeggianti quasi ad anfora ed esprimeva una sua bellezza, mentre la donna Spartana era dedita anche ad attività fisiche ed era longilinea. La donna nell’antico Egitto era molto raffinata e curava il suo aspetto con trucchi, gioielli e stoffe preziose. Donne dipinte, statiche, silenziose, che ci parlano nei secoli dal loro silenzio. Eppure, nella nostra società il silenzio si riveste di negatività ed è inteso come inquietante. Siamo troppo abituati al rumore. Nelle mie esperienze d’ insegnamento ho sempre avuto la testimonianza di come i giovani non siano stare in silenzio, diventano frenetici, lamentano subito un disagio e chiedono addirittura di poter ascoltare la musica, con gli auricolari durante i compiti in classe, per evadere dal silenzio. Una situazione che desta fastidio, tensione, addirittura paura! La fobia del silenzio è molto ricorrente nei giovani, spesso si può collegare ad una situazione di abbandono vissuta nell’infanzia o può solo richiedergli troppo contatto con la propria interiorità da cui sfuggono. Perdono, così, l’essenza della quiete e non trovano le giuste pause per rendere melodiosa la loro vita. A volte basterebbe poco, una riflessione, per vedere con occhio diverso ciò che ci circonda e riflettere sulle scelte, senza poi avere rimpianti. Molte volte, nei rapporti umani, cala il silenzio quando i rapporti sono inclinati e non vi è più niente da dirsi, silenzi che nascondono riflessioni, ricordi, ragionamenti in cerca di una situazione, oppure, ancora nascondono pensieri rivolti ad altre persone che sono lontane fisicamente. Nella comunicazione più si parla, più si dimostra di voler instaurare un rapporto, e si manifesta la voglia di lasciarsi leggere dall’altro. Più si danno informazioni, più si manifesta di essere intenzionati ad instaurare amicizia. Un esempio può essere una banale conversazione, ad esempio, se una persona chiede ad un altro: “Come stai? Hai trascorso bene le vacanze?” La risposta dell’interlocutore può essere un semplice ed ermetico “Bene, grazie”, qualcuno più cordiale può aggiungere “e tu?”, chi invece, o perché estroverso o perché vuole mantenere un rapporto familiare con l’altra persona può iniziare un discorso infinito, può descrivere il tragitto, i suoi progetti prima del viaggio, i suoi itinerari, i vantaggi e gli svantaggi, le sue impressioni, le tradizioni che ha incontrato, i paesaggi che ha apprezzato maggiormente e ancora cosa lo ha potuto sconvolgere e può anche rivolgere la stessa domanda. Molto spesso nei rapporti più intimi due persone che si stanno corteggiando passano ad una prima fase in cui si parlano tanto, ad una seconda fase in cui ormai basta guardarsi negli occhi, senza parlare, per potersi capire. Trovo che questo esempio riveli il vero significato del mistero del silenzio, in cui tutto tace, per lasciar spazio ad una comunicazione più elevata. Molto spesso, i nostri cani e gatti solo guardandoci negli occhi ci comunicano chiaramente frasi, per noi istintivamente comprensibili e siamo subito capaci di tradurle in parole, eppure, molto spesso, nostri simili ci parlano per ore e non capiamo cosa vogliano dirci. Concludo, citando alcune frasi ispirate e dedicate al silenzio: «La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta» di Anna Frank; «Il silenzio dell’invidioso fa molto rumore» di Kahlil Gibran; «Alla fine ricorderemo non le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici» di Martin Luther King; «Amico è … con chi puoi stare in silenzio» di Camillo Sbarbaro.
[1] Perdute e ritrovate. Uno sguardo d’insieme, di Cristina Jandelli e Lucia Cardone, in «Bianco e Nero», Rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia, Anno LXXII, fascicolo 570, maggio-agosto 2011, pg. 5
Pubblicato in «Controluce», Gennaio 2014.