Chi sono gli Islamici?
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Intervista sulla cultura islamica: dott.ssa D. Settineri, Università degli studi di Palermo.
1. Chi sono questi Islamici tanto temuti? da dove vengono? dove vanno?
«Gli islamici sono più di un miliardo e seicentomila persone nel mondo che credono in Allah che si è fatto verbo nel Corano e ha parlato per mano del suo profeta. Con l’ebraismo e con il cristianesimo l’Islam condivide i medesimi luoghi di nascita e di sviluppo e questo ha fatto sì che la sua genealogia si intrecciasse a quella delle altre due grandi religioni rivelate. L’ Islam, inoltre, essendo la religione più giovane, condensa e sintetizza aspetti propri del dio degli eserciti veterotestamentario con quello del dio amore neotestamentario. Ovviamente le differenze strutturali ci sono, ma ugualmente, anche a una lettura superficiale, è impressionante notare la continuità tra i testi sacri (per l’Islam la successione dei profeti è Abramo, Mosè, Gesù, Muhammad). A livello storico, invece, è più giusto parlare di diversi Islam, così come si parla di diversi cristianesimi. L’intrecciarsi della dottrina religiosa con le storie locali, il suo declinarsi nella quotidianità di società con sensibilità diverse, infatti, ha fatto in modo che si prediligessero aspetti di volta in volta differenti. Si passa, così, dal misticismo dei sufi alle correnti socialiste degli anni Settanta. Certamente l’Islam è una religione estremamente prescrittiva e normativa, attenta a tutti gli aspetti della vita sociale dell’individuo, il suo profeta è un capo religioso ma anche politico e questo rende difficile la scissione tra potere temporale e potere spirituale. Ciò che accade oggi, però, non ha nulla a che fare con la religione, ma è la conseguenza di precise politiche risalenti al periodo post coloniale, quando gli stati europei, seppur abbandonando formalmente il controllo dei territori africani e mediorientali, hanno continuato a gravitare nell’orbita di questi territori indirizzandone le scelte economiche, politiche, sociali in nome dei vantaggi capitalisti europei. Uno degli accordi più emblematici risale al 1916, l’accordo Sykes-Picot, firmato da Francia e Inghilterra che definivano le zone di rispettiva influenza in Medio oriente Ciò ha provocato forme di resistenza locale che si sono manifestate anche con rivendicazioni identitarie di tipo religioso in quanto permettevano di opporsi ai modelli egemoni imposti dall’Europa, che non si è mai preoccupata delle ricadute sociali delle proprie scelte economiche e politiche. Tali forme di resistenza, inoltre, sono state a loro volta strumentalizzate dagli stati occidentali che si contendevano un determinato territorio: la situazione dell’Afghanistan, per esempio, è il frutto delle scelte imperialiste americane in chiave anti Unione sovietica per cui si sono finanziati gruppi di jiadhisti con lo scopo di armare frange locali indipendentiste e filoamericane che facessero da roccaforte degli interessi americani sul territorio. A pagare la scelta di queste politiche, però, furono poi cittadini inermi che, da allora, dovettero fare i conti con la ferocia dei talebani che poi, però, si allearono con la Cina contro l’imperialismo americano. La situazione della polveriera mediorientale, dunque, sta tutta nella definizione dei confini e delle sfere di influenza economica. La stessa cosa si potrebbe dire per un’Africa stremata dagli interessi delle multinazionali che continuano a depauperare risorse e persone. La ragione che ci siano ragazzi delle cosiddette “seconde generazioni” di immigrati che aderiscono alle fila del fondamentalismo, invece, va rintracciata anche anche nella frustrazione per il fatto che, in occidente, essi vivono come cittadini di serie b, sempre costretti a lottare per l’emancipazione. Sono trascorsi 10 anni dalle rivolte nelle banlieue parigine, ma le periferie urbane in cui vivono questi ragazzi continuano a essere luoghi di segregazione in cui l’accesso alle risorse sociali e pressoché impossibile. Nell’analisi di tutte queste ragioni e nelle loro connessioni vanno cercate le risposte agli eventi di questi giorni.»
2. Perché distruggono l’arte?
«L’arte è lo strumento d’emancipazione per eccellenza. I signori della guerra, e chiunque voglia avere un’umanità da cui attingere mano d’opera cieca per il proprio potere, deve attuare un processo di deumanizzazione, un processo che allontani l’essere umano dalla contemplazione della bellezza, che disabitui l’uomo a “essere” umano. E’ il rischio che corriamo ogni giorno quando releghiamo una parte di umanità alla mera sopravvivenza. Un vero e proprio atto di spoliazione di umanità i cui esiti sono prevedibilissimi: produciamo eserciti di umanità a servizio della propaganda bellica. Lo facciamo nelle nostre periferie urbane, consegnando migliaia di giovani alle mafie, lo facciamo nelle parti più disparate del mondo consegnando milioni di giovani nelle mani dei signori della guerra. Nello specifico, c’è da aggiungere, che l’iconoclastia dell’Isis sta diventando un business da diversi milioni di dollari: l’archeologa francolibanese Joanne Farchakh intervistata dall’Independent sottolinea che molte opere d’arte, prima che i siti vengano distrutti, sono vendute sul marcato nero in occidente a prezzi stratosferici.»
3. Perché uccidono in nome del loro Dio?
«Jihād esclusivamente come guerra santa militare è prodotto nel mondo contemporaneo. Jihād è, più propriamente, “esercitare un massimo sforzo” per percorrere la strada che porta a Dio. Tradizionalmente Jihād è, soprattutto, la guerra che l’uomo fa con se stesso, con le proprie pulsioni, con la propria parte peggiore per elevarsi a Dio. L’interpretazione strumentalizzata del Jihād ha portato all’equazione con guerra militare. Non ha nulla a che fare con la religione, o ne ha quanto ne potrebbe avere se si iniziasse oggi una guerra in nome del “dio degli eserciti” di Abramo e Mosè. Jihād, oggi, è l’aberrante risposta degli islamisti alle aberranti politiche coloniali e post coloniali dell’Europa e degli Usa. Attenzione, “islamisti”, non islamici. E’ precisa volontà politica sia dei terroristi sia di molti esponenti dei nostri governi creare l’equazione musulmani (o islamici) e islamisti terroristi. La propaganda Islamofoba e xenofoba, infatti, ha un duplice esito: creando fazioni e guerriglie intestine, porta ai margini un ulteriore numero di mussulmani che potrebbero cadere nelle mani dell’Isis e giustifica, agli occhi dell’opinione pubblica, gli attacchi militari. E i veri interessi di guerra continuano a essere abilmente sottaciuti.»
4. Cosa significherebbe per noi europei essere dominati dalla loro cultura?
«Noi siamo il frutto di una cultura condivisa. Nel medioevo, in Europa, nessuno sapeva più leggere le opere in greco: per essere fruibili, esse sono state tradotte in latino da studiosi musulmani. Boccaccio ebbe un maestro musulmano che lo iniziò allo studio del greco. La presenza di Avicenna e Avorroè nell’opera di Dante è cosa nota a tutti. La “cultura” non è un cosa astratta e statica, ma una realtà processuale, in continuo divenire, frutto dell’incontro fra persone e della mediazione fra diversi saperi e modi di vivere il mondo. Non esistono “culture” predefinite, esistono esseri umani che, insieme, vanno trovando risposte sociali alla propria presenza nel mondo. La cultura potrebbe essere definita via via come un prodotto dell’incontro, non come un dato a priori da difendere, tranne che non vogliano attuare un processo di musealizzazione delle culture, ma rischieremmo, a quel punto, di creare isole in cui annullare qualsiasi spinta vitalistica, monadi autoreferenziali che finirebbero per implodere.»
5. Cosa non condividono con noi? in cosa divergono come mentalità?
«Non si deve mai parlare di “noi” e “loro”. L’idea del “noi” e del “loro” è il prodotto di un’astrazione, un processo di immaginazione. C’è un bellissimo libro di Benedict Anderson che spiega come l’idea di “nazione” sia il frutto di una costruzione artificiale avvenuta grazie alla creazione di un immaginario comune che, tramite a un processo selettivo e indotto, ci porta a dimenticare alcuni eventi e a renderne funzionali altri. Inoltre, anche nella più piccola comunità nazionale, gli abitanti non si conosceranno mai tutti, eppure, in tutti, c’è l’idea di appartenere allo stesso gruppo. Se questo tipo di sentimento poteva avere un senso in un determinato periodo storico perché era necessario alla creazione degli stati nazione, oggi, continuare a coltivarlo è anacronistico e pericolosissimo perché il dato di fatto è che l’epoca dello stato nazionale è surclassata dal punto di vista politico, con la creazione di enti sovranazionali, dal punto di vista economico, con il movimento continuo di flussi di denaro da una parte all’altra del pianeta, dal punto di vista della comunicazione, con le nuove tecnologie, e, soprattutto, non tiene conto di una semplicissima ovvietà: gli uomini si spostano.»
6. Quali potrebbero, invece, essere gli argomenti di dialogo?
«Probabilmente la cosa più semplice, anche se è quella che non si fa mai, sarebbe quella di smettere di leggere il mondo soltanto dal proprio punto di vista, ma imparare a mettere in discussione e a relativizzare le proprie certezze cercando sempre di comprendere quali siano le dinamiche che portano a operare scelte differenti dalle nostre e, soprattutto, che “differente” non è sinonimo di peggiore o migliore, non c’è una scala gerarchica, ma ci sono risposte che l’essere umano dà a determinate sollecitazioni. E’ molto importante, inoltre, tenere conto dei contesti di produzione dei fenomeni, cercare di comprenderne le dinamiche interne ma anche quelle più ampie, relative ai rapporti di forza a livello locale e planetario. E poi, semplicemente, ricordarsi che la cultura non è un blocco monolitico a cui gli uomini devono adattarsi, ma il frutto di una negoziazione storica in continuo divenire. Come ognuno di noi non è uguale a se stesso nel tempo, così anche il mondo che viviamo va mutando.»