Donna: musa o seduttrice?
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
La donna protagonista nel mondo tra luci e ombre, riflettori e cronaca nera.
“Come vergine nacque Venere e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso” scrive, nel 1803, Ugo (Niccolò) Foscolo, nel sonetto “A Zacinto” dedicato alla sua terra natale e cita la dea della bellezza per decantare il luogo. I termini “femminilità” e “bellezza” appaiono strettamente legati quasi come fossero sinonimi e anche indissolubili come concetti. Nell’antichità le arti della letteratura, musica, pittura, scultura, erano rappresentate da Muse, ovvero, figure femminili in grado di ispirare un artista e di metterlo in contatto con il “bello”, l’estro, la fantasia, la creatività. Donne, ovvero presenze incantate capaci a sua volta di incantare l’uomo. Nella letteratura del duecento si parlava di “donna angelo”, ovvero una creatura pura e capace di riflettere nella sua bellezza i tratti di Dio, per salvare e redimere gli uomini. Nel Trecento, con Boccaccio, in particolare, la donna inizia a rivestirsi di passionalità e viene enfatizzato il suo ruolo di seduttrice nei confronti dell’uomo. Arrivati alla fine del 1500, con Torquato Tasso autore della “Gerusalemme Liberata” parlare di donna sotto un aspetto passionale diventa tema censurato, in particolare dalla chiesa. La donna per eccellenza di quest’opera è Clorinda, presentata in duplice valenza, quindi ambigua: donna per il sesso, ma in guerra vestita d’armatura come gli uomini; bianca, quando d’origine dovrebbe essere di colore e per finire si innamora di Tancredi, ma di lei si sa che aveva una relazione anche con un’altra donna, di cui l’autore ha scritto: “dormivano nello stesso letto”. Clorinda riveste i panni di una donna enigmatica, incomprensibile, misteriosa e indecifrabile fino in fondo. Una sorta di essere impercepibile dall’uomo, che la ama pur non potendo raggiungere alla piena conoscenza. Spesso la donna è un essere capace di sprigionare nel maschile sentimenti e stati d’animo molte volte senza scampo, come quelli descritti da Francesco Petrarca in “Solo e pensoso”: «cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co’llui». Ancora, è musa esaltata, anche, dal cinema, infatti, i primi decenni del cinematografo presentano numerose figure femminili, che animano le immagini in movimento, fino a giungere, nel 1910, ad una stagione detta “dell’oro”: in Italia si assiste ad un fiorire femminile nel campo lavorativo, che prosegue negli anni Venti e Trenta, in cui la donna assume sempre più fascino e protagonismo nella cultura e nella società. Si diffondono così, fino a divenire “dive” protagoniste della scena, sicure della loro bellezza e del fascino che suscitano, una sorta di oggetto di desiderio e tentazione attraverso cui l’uomo viene catturato in un vortice di smarrimento e attrazione. Il film ritenuto il capostipite del genere definito “diva film” è stato “Ma l’amor mio non muore!” di Mario Caserini del 1913, questo ha aperto le porte ad una serie cinematografica ancora oggi studiata e decantata. Col passare degli anni, nel film di Bunũel, “Susana” del 1951, viene narrata una figura femminile la cui bellezza trascina in rovina gli uomini ed è quindi associata ad una presenza diabolica, scacciata e maltrattata, rifiutata dalla comunità in cui vive. Un esempio simile è dato anche in un film, più recente, del 2000, “Maléna” di Giuseppe Tornatore: qui Monica Bellucci interpreta il ruolo di una donna, rimasta sola a causa della guerra, bella e giovane, usata, prostituita, stuprata, da una società che nella bellezza vede solo qualcosa di demoniaco; un oggetto di desiderio da usare e poi calpestare. Le donne, ancora, finisco anche per divenire immagine, in particolare nella pubblicità di articoli in vendita, su copertine di riviste, ed esibizioniste in spettacoli d’intrattenimento per uomini, come il cabaret, il Can Can: qui il loro corpo si sveste tra musica e danza, quasi fosse una ninfa sinuosa tra le onde del mare, una di quelle sirene che ha tentato Ulisse e i suoi compagni d’avventura. Eppure, dopo le dive si ha avuto con Eleonora Duse, un periodo di “anti-diva” in cui la recitazione avveniva di spalle e la donna non indossava gioielli e nemmeno abiti di pregio, eleganti e seduttivi. La donna, fin dagli albori dei nostri tempi è stata sempre investita da mille trasformazioni culturale e sociali che spesso si sono rivelate trappole in cui sono diventate oggetto di manipolazione di massa. Il ruolo di madre decantato più dalla poesia e dalla pittura ha avuto un ruolo, si può dire secondario, forse più stimato nell’antica Grecia a Sparta, quando alla madre era affidato l’importante compito di fornire un’istruzione ai figli. Secondo uno studio condotto da Gaylyn Studlar [1]la donna nel cinema arriva anche a raggiungere un aspetto legato all’estetica masochistica in cui sfocia una sessualità perversa: «Il masochismo è innanzi tutto formale e drammatico, ossia raggiunge una combinazione di dolore e piacere soltanto attraverso un particolare formalismo, e vive la colpa soltanto attraverso una storia specifica»[2]. Se per Freud la fase fallica rappresentava lo sviluppo del desiderio, nel modello masochista si rifiuta questo atteggiamento e si enfatizza la fase fallica ponendo al centro solo il piacere fisico, in cui la donna diventa oggetto, preda e vittima: la sua dignità umana e spirituale viene dissolta in puro ausilio attuo al raggiungimento di un piacere carnale. Una visione molto pericolosa che sfocia in una deturpazione del femminile e alimenta quelli che poi sono episodi di violenza. Arrivati ai nostri giorni, però la donna, seppur libera di vivere senza costrizioni particolari è oggetto di una cronaca in cui si raccontano, sempre più numerosi, casi di femminicidi.
[1] Gaylyn Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Stremberg Dietrich and the Masochistic Aesthetic, Columbia University Press, New York 1988.
[2] Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele, ES, Milano 1991 (ed. or. Les Éditions de Minuit, Paris 1967) p. 120.