Giudice e avvocato: due grandi missioni
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Due puntate della trasmissione “Piazza Verga”, il Salotto della Giustizia, Catania, Sestarete, condotte dall’avv. Giuseppe Lipera. Ospite di una puntata il giudice Santino Mirabella e dell’altra l’avvocato Riccardo Liotta.
La letteratura e l’arte sono due espressioni umane attraverso cui l’uomo particolarmente dotato di sensibilità e talento comunica la realtà in una forma artistica tra colore e poesia. Nel cimitero di Pisa sono ancora visibili alcune immagini di antichi affreschi in cui è rappresentata la lotta del bene e del male che si contendono l’anima del defunto. Un arduo mestiere che si applica anche ai vivi, tutti i giorni nei Tribunali ad opera di avvocati e giudici. Ma chi sono queste persone e perché hanno scelto una queste professioni? Le risposte sono state data durante due puntate di “Piazza Verga”, il Salotto della Giustizia, condotte dall’avvocato Giuseppe Lipera.
Santino Mirabella, giudice presso il tribunale penale di Catania, scrittore di poesie e romanzi ha illustrato la missione che si cela dietro la professione e alcune sue frasi sono state tanto incisive quanto esplicite: «Ho vissuto i miei anni sia da avvocato sia da magistrato credendoci nello stesso identico modo: la disillusione sulla capacità di incidere in maniera netta su ciò in cui ci moviamo è avvenuta, c’è una disillusione più dell’uomo che del magistrato. La passione grazie a Dio non è stata intaccata». Ancora, ha detto: «Se qualcuno della mia categoria pensa di svolgere questo lavoro come impiegato si sbaglia, perché è una missione»; «Come diceva Paul Newman “il processo è un’occasione di giustizia” bisogna, quindi, sperare che attraverso le regole si possa arrivare a quello che gli uomini chiamano giustizia»; «Il giudice è comunque un cittadino e spesso anche a lui in quanto cittadino non piace la sentenza, ma si ritrova a doverla applicare».
Riccardo Liotta, avvocato penalista e consigliere dell’ordine degli avvocati di Catania, presidente della sezione catanese dell’associazione nazionale “CAMMINO”, Camera Minorile Nazionale. Ha raccontato di aver respirato l’aria del Tribunale di Catania fin dagli albori della sua vita, in quanto figlio di due avvocati. Quello che emerge dal suo discorso è una prospettiva condita di innovazione ed evoluzione, in cui i più giovani che intraprendono questo lavoro devono essere formati e informati, affiancando molta pratica allo studio. Dalla sua visione generale emerge la necessità di creare una rigida selezione e un numero chiuso, perché al momento gli avvocati sono troppi. Quello che può essere fruttuoso, secondo lui, è una più rigida formazione prima dello sbocco. Quello che consiglia ai giovani avvocati ricalca alcune parole pronunciate da suo Padre: «chi si occupa di diritto minorile deve apporre una mano sul codice e una sul cuore». Un chiaro esempio di come l’umanità e l’onesta non devono essere sottovalutate.
Quello che emerge da questi due interventi è la sottile e ambigua soglia che il loro mestiere deve varcare per raggiungere la verità di una colpa, qualsiasi essa sia. Un tema ampiamente trattato nella Divina Commedia, dal noto Dante Alighieri, che in quest’anno, 2015, viene celebrato per i 770 anni di anniversario dalla nascita. Basta citare il canto V dell’inferno per descrivere come l’aver infratto una legge terrena abbia influito anche sul giudizio divino: perché Francesca ha tradito il marito con il cognato, ma il suo era stato un matrimonio “combinato” e il suo cuore ha in realtà amato solo Paolo, il cognato amante. I versi di Dante riportano una frase significativa della giovane donna: “Caina attende chi a vita ci spense”. Lei stessa si rende conto dell’ingiustizia della pena subita, perché il suo unico peccato è stato quello di amare, che è un comandamento di Dio; suo marito, invece, ha ucciso sia lei sia suo fratello e merita la peggiore delle pene, nel luogo dell’Inferno più vicino a Lucifero. Il discorso della pena, però, in Dante è molto complesso, così come nella vita e molte volte chi pensa di vivere correttamente si può ritrovare a scontare delle pene, come del resto chi, invece, ha sempre condotto una vita spregiudicata e alla fine viene graziato. In questo caso le figure descritte da Dante sono Guido da Montefeltro e il figlio, Bonconte da Montefeltro. Il primo, Guido, è descritto nel canto XXVI dell’Inferno, dove sono collocati i fraudolenti, ovvero coloro che hanno peccato di frode. Si tratta di un uomo astuto, che però, per ben due volte finisce vittima di tranelli che gli costano la pena dell’inferno. Dante nell’illustrare la vicenda di Guido cita un antico episodio del “Bue di rame di Sicilia”. Un marchingegno di tortura costruito da un tiranno siciliano, nell’età classica, per far rinchiudere un condannato e farlo morire bruciato. Si narra che la prima volta in cui sia stato utilizzato proprio per il suo costruttore, attraverso l’inganno dei suoi amici. Un metafora che illustra bene, come molto spesso si possano scontare delle pene solo per aver subito dei tranelli e la distanza tra vittima e carnefice non sempre risulta ben delimitata. Poi, il figlio di Guido, Bonconte da Montefeltro, un peccatore creduto da tutti in Inferno, invece, è l’esempio di come un peccatore possa essere graziato. Pur avendo vissuto una vita spregiudicata, Bonconte si trova in Purgatorio, solo per aver invocato il nome di Maria santissima nel momento della morte. Questi esempi, che tutti dovrebbe conoscere nelle scuole superiori rendono bene l’idea di come possa essere complicavo giudicare qualcuno e come giustamente hanno detto i due ospiti di “Piazza Verga” senza una vera e propria vocazione sarebbe impossibile svolgere le due professioni: del giudice e dell’avvocato.