L’ultimo Sonderkommando italiano: intervista a Roberto Brumat
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Una vita tra i morti raccontata in un libro.
Come ben sosteneva lo scrittore polacco, Isaac Bashevis Singer “Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio”. Ed è la storia di un misero, quella che ci raccontano Vanzini e Brumat nel libro appena pubblicato con il titolo “” edito dalla Rizzoli. Roberto Brumat, giornalista pubblicista e scrittore, ha accettato un’intervista per Socialnews e ci ha illustrato alcuni aspetti di quest’opera.
Com’è nata l’idea di pubblicare la storia di vita quest’uomo?
«Il libro è la narrazione in prima persona del protagonista della storia. L’idea di raccogliere questa testimonianza è nata dall’incontro con Enrico Vanzini, a fine 2011. Mi era stato presentato dall’Associazione Marca Trevigiana ed è stato subito chiaro che ne sarebbe nato un documentario, il modo più efficace per lasciare una memoria anche visiva di quei fatti. Nel documentario di un’ora, andato poi in onda su RaiStoria, sono stati ovviamente tralasciati tanti particolari che si trovano ora raccolti nel libro».
Ci può raccontare brevemente i punti salienti dell’esperienza del protagonista?
«L’ultimo Sonderkommando italiano racconta i cinque anni di un soldato italiano salvatosi per caso dalla partenza per il fronte russo e spedito invece in Grecia. Ma si focalizza sugli ultimi due anni, quelli di prigionia in Germania dopo l’8 settembre 1943: dapprima in una fabbrica militare dove ricevette un trattamento consono alla Convenzione di Ginevra; poi, dopo la fuga e il tradimento di una ragazza milanese che lo consegnò alla Gestapo, nel lager di Dachau dove rimase 7 mesi fino alla liberazione americana. Fame, bastonate, sevizie subite in infermeria, e poi le montagne di morti visti marcire sotto la neve, le adunate interminabili vestendo solo il pigiama e gli zoccoli senza biancheria intima a 20 sottozero, i disperati che preferivano farla finita lanciandosi contro i fili spinati elettrificati, sono stati il quotidiano di Enrico e di altre decine di migliaia di prigionieri. Il protagonista ricorda la disperazione di non poter parlare con nessuno in italiano, la notte passata accanto a un morto e molti altri episodi molto toccanti che hanno messo a dura prova la sua resistenza psichica oltre che fisica e che ci fanno capire quanto piccola sia la distanza che separa l’umanità dalla ferocia».
Qual è lo scopo/messaggio di questo libro?
«L’ultimo Sonderkommando italiano è un libro che racconta la vicenda umana di un novantenne che ripercorre i suoi vent’anni, passati in divisa militare prima (anche senza mai sparare un solo colpo) e poi con il “pigiama” a righe in un lager nazista. Ho raccolto la testimonianza di Enrico Vanzini (nativo della provincia di Varese, che da anni vive nel Padovano) per farne un documentario (Dachau baracca 8 numero 123343) da cui è nato questo libro edito da Rizzoli, in libreria da ottobre. Sonderkommando erano le squadre speciali di internati costretti dalle SS a eliminare nei forni crematori i morti nel campo di concentramento. Ad Enrico Vanzini toccò per 15 notti questo terribile compito, come quello di estrarre dalla camera a gas una sessantina di ebrei che erano stati messi lì dentro con la scusa di fargli fare una doccia: li trovò tutti abbracciati gli uni agli altri e faticò non poco a staccarli per caricarli nel forno di sinistra, il più piccolo e riservato agli ebrei».
A quale tipologia di pubblico è indirizzato questo libro, a chi è destinato il suo messaggio?
«Il messaggio del libro è duplice: non disperdere la memoria di fatti tanto gravi accaduti a poca distanza dall’Italia e dal nostro tempo; ed essere un ulteriore monito perché cose del genere non accadano mai più. Questa testimonianza è rivolta a tutti, ma soprattutto ai giovani che sentono queste storie lontane o le vedono raccontate in tv da immagini orrende in bianco e nero, che di per sé sembrano fuori dal tempo ed estremamente distanti dal nostro quotidiano: distanti soprattutto in quanto lontane dal nostro concetto di umanità. Ma a pensarci bene quelle atrocità sono state prodotte da europei come noi, vicino a noi e solo 70 anni fa. E non sono certo le uniche di cui si è reso responsabile il genere umano: i genocidi conosciuti (a partire da quello di musulmani voluto da papa Urbano II, che nel 1095 avviò la prima Crociata) si calcola che abbiano prodotto qualcosa come 140 milioni di morti (nella stima più bassa). Sono episodi lontani? Non troppo, se lo psicologo americano Stanley Milgram nel 1961 ha dimostrano con una ricerca condotta su uomini tra i 20 e i 50 anni (di diversa estrazione sociale) che, in cambio di denaro, molti sono disposti a punire con violenza uno sconosciuto per il solo fatto di rispondere erroneamente alle loro domande e per subalternità all’autorità dello sperimentatore. Il 65% dei partecipanti inflisse una scossa elettrica considerata mortale (450 Volts) alla cavia umana quando non poteva né vederla né ascoltarla; il 62,5% lo fece anche nei confronti del “condannato” di cui sentiva la voce; il 40% punì la cavia pur vedendola e ascoltandola e il 30% lo fece agendo di persona e cioè portando il braccio del poveretto sulla piastra elettrica. Naturalmente la cavia era un attore e le scosse finte, ma quegli uomini non lo sapevano. E poi c’è il negazionismo che si affaccia ogni tanto e che in alcuni Paesi è configurato come reato».
Pubblicata in «Socialnews» il 27/10/2013.