Un grande maestro: padre Silvano Fausti s.j.
di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia
Il 24 giugno è salito al cielo Padre Silvano Fausti s.j. della comunità di Villapizone (MI).
Caro Silvano, scrivo questo articolo come se fosse un’altra delle email, che ci siamo scambiati per anni. Lo so, qualche mese fa, mi avevi scritto di non stare bene, quindi la notizia non mi ha sorpresa. Eri buono sulla terra e hai saputo fare del bene a tante persone, sarai sicuramente alla destra del padre. Sono serena, perché so che sarai sempre vicino a tutti, sei solo “diversamente vicino” e non invisibile, perché nei cuori di chi ti ha conosciuto hai lasciato il segno. Ricordo, ancora la prima catechesi a San Babila, dove ti ho conosciuto. Parlavi del vangelo e non eri noioso come tanti parroci in chiesa. Ero rimasta colpita da una tua metafora: «se andate in chiesa e il prete vi annoia non pensate a cosa avrebbe potuto dire o a quando finirà di parlare. Prendete le sue parole così come se vi stesse donando un diamante avvolto nella carta del gorgonzola. Puzza sì, ma dentro c’è un diamante! Voi gettate la carta che puzza e tenete il diamante». È così in ogni situazione! Quanto sono state vere queste parole, ieri, oggi e credo proprio lo siano sempre. Da quel giorno ho iniziato a seguirti e ho comprato e letto i tuoi libri. Alcune tue frasi sono rimaste scritte sui miei quaderni e impresse nella mia mente:
«Il più grande miracolo su noi stessi è quello di accettare il nostro corpo con tutti i suoi limiti, perché è il luogo del dono, della condivisione, della pace». (Dalla Catechesi su Mc 6, 1-6)
«La felicità chi la cerca non la trova, è un dono offerto a chi, facendo ciò che è bene, cerca ciò che ama e ama ciò che trova». (Silvano Fausti, Lettera a Sila, ed. Piemme, p. 51)
«Il primo atteggiamento di Maria è stato l’ascolto. Tramite l’ascolto Maria ha accolto Gesù nel suo grembo e così ogni volta che noi ascoltiamo qualcuno lo accogliamo nel nostro grembo e gli permettiamo di rinascere. Ascoltare qualcuno significa donargli la vita». (Silvano Fausti, Omelia della messa del 18/12/2005 a Villa Pizzone, Milano)
Chiamavi la Santa Pasqua il Natale dell’anima! Ricordo, anche, una catechesi sulla sofferenza in cui hai commentato il passo del vangelo Gv. 16, 16-23: Nel cap. 16 di Giovanni, ci troviamo nel Cenacolo, durante le ultime ore dell’Ultima Cena. Gesù dice ai suoi discepoli “è bene per voi che io me ne vada”. Il suo andarsene, la sua distanza è fondamentale, perché possa nascere il discepolo in quanto discepolo. Nella settimana della passione la sera del giovedì, Gesù dice ai discepoli: “Per un poco mi vedrete, ancora un poco e non mi vedrete”. Lo vedono nell’agonia nell’orto, legato condotto da Anna da Caifa, giudicato, condannato, sputacchiato, ucciso e morto, e poi non lo vedono più: il tempo in cui è nel sepolcro. Vivono l’angoscia di averlo perso. Quindi, ci sono questi due brevi tempi, che i discepoli devono affrontare: sono quei due tempi che tutti dobbiamo affrontare nella vita. Sono il tempo del silenzio di Dio, che accomuna ogni uomo credente e non credente: il tempo della prova e dell’afflizione. Ma, vi è anche un terzo tempo, che è il frutto di questi due brevi tempi ed è quel giorno senza fine, che avviene quando comprendiamo il significato del suo andarsene, mediante il dono dello Spirito. Il cap. 16 ai vv. 16-23 dice “sarete tristi e poi di nuovo felici”, quando mi rivedrete in modo nuovo. Avrete le vostre difficoltà, le sofferenze, le agonie, sono però, che sono come le doglie del parto. Quindi, il senso di tutto questo testo è detto nel finale “Abbiate coraggio”. I discepoli si sentono tristi e scoraggiati nel mondo in cui sono senza Dio, nell’assenza del loro maestro, in un mondo che noi tutti sperimentiamo: il mondo del silenzio di Dio. Il testo vuole un po’ farci affrontare questi tempi, che sono i tempi del modulo fondamentale della nostra esistenza, cioè il passaggio dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita, dalla delusione alla speranza. Gesù parla con sano realismo dalla difficoltà. Ridimensiona la durata della difficoltà con “un poco”, quando si è dentro una difficoltà, questa sembra estesa all’infinito, Gesù invece, le dà una giusta misura. “Un po’”, è quello che sopporti rispetto a quello che ti verrà dato. Gesù dice semplicemente: guardate che il dolore che avete, la vostra tristezza, non è la fine del mondo, non è la fine di tutto, ma è il principio di tutto, è soffrire le doglie del parto. Voi, quando soffrite, sostenete semplicemente quella lotta che ha sostenuto Lui, per giungere alla gloria. La sofferenza è il luogo dove testimoni la vita e la morte. Si ha un paragone tra chi soffre e chi partorisce: la donna quando ha partorito il bambino non ricorda l’afflizione a causa della gioia. Praticamente questo è il Natale dell’anima, questa nascita dell’uomo nuovo. Il mistero stesso della fecondità del chicco di grano che muore per portare frutto. L’afflizione e la tristezza non va evitata, c’è! Se no, non potrebbe nascere niente di nuovo. La sofferenza è feconda di vita, è il momento dello stacco e della crescita, perché se non ci fossero le doglie il figlio non si staccherebbe e non uscirebbe fuori. Mt 5, 11 dice “beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…” ; At 5, 41 “Uscirono lieti dal Sinedrio per essere stati stimati degni di essere simili a Gesù”. Giacomo dice, citato poi da San Francesco d’Assisi: “considerate perfetta letizia fratelli miei quando subite ogni sorta di prove”. Non è che piacciono le prove, ma perché la prova è la prova: prova quanto vali, prova la forza del tuo amore. Così, anche Pietro quando dice ai Cristiani “Siate colmi di gioia”, come l’oro si purifica nel fuoco è solo per purificarlo. Nella Lettera agli Ebrei si dice che se uno non ha queste prove è pericoloso, dice “non è figlio”. Non è che il cristianesimo annunci il “dolorismo”, ma se si capisce il significato la prova diventa positiva. Si tratta di affrontare l’esistenza con la sua realtà: se si porta un peso come qualcosa di utile si ha la forza, altrimenti si rimane schiacciati (Cfr.: Lettera di Paolo ai Romani 8, 18-30).